Un pomeriggio d’agosto di qualche anno fa, i sensi piacevolmente storditi dall’afa canicolare, me ne stavo oziosamente a osservare la solita partita a carte tra Tonino e Attilio – una sfida ormai canonica, quasi un’istituzione – quando, caracollando con aria indolente, si avvicinò al tavolo Raffaele, l’architetto, nato a Cairano ma vissuto quasi tutta la vita lontano dal paese natio. Questa breve digressione è necessaria per comprendere il passo successivo. Che Raffaele si trovasse a Cairano nel periodo estivo era del tutto naturale, e ancora più naturale era il fatto che passasse al bar a prendere un caffè. Cosa, dunque, fa di quella giornata una giornata particolare? Una parola, una semplicissima parola, del resto sentita centinaia di volte e accantonata con indifferenza nel cestino del superfluo. Ma, ciò che non accade in una vita intera, può accadere in un attimo. Raffaele, quasi con noncuranza e in perfetto idioma locale, chiese all’uditorio: «Uagliù, m’ sapiss’v addic’ che signif’ch’ la parol’ annasulà?». (Ragazzi, sapreste dirmi cosa significa la parola annasulà?).
Lì per lì ci fu una breve discussione sull’esatto significato del termine, e si convenne che quello più plausibile fosse origliare di nascosto. Sembrava l’ennesima parola destinata a finire nel famoso cestino, e invece no! Quando si dice il miracolo della parola!
Annasulà… annasulà… continuava a ronzarmi nella testa in modo fastidioso, non riuscivo a scacciare quel pensiero: ma non era il termine in sé che mi perseguitava, e nemmeno il suo significato intrinseco, bensì la considerazione che, distratti come siamo da mille impegni, non facciamo caso a uno dei beni più preziosi che la vita ci regala: la nostra lingua. Che poi è la lingua dei nostri padri, dei nostri nonni, dei nostri trisavoli… è il filo sottile che ci lega nel corso dei secoli e ci permette di dire: «Io faccio parte di questa gente, io appartengo a questo popolo, la mia memoria storica è racchiusa in queste case, aleggia in queste piazze, e nessun terremoto potrà spazzarla via, nonostante tutto!».
Ecco come nasce questo volume: grazie al miracolo della parola. E grazie, naturalmente, all’apporto di Raffaele che, pur nella sua involontarietà, mi ha convinto a iniziare questo lavoro nel quale ho coinvolto tanta gente di Cairano che si è dimostrata disponibile nel darmi una mano, soprattutto per quei vocaboli più arcaici, dei quali si è quasi perso il ricordo.
Il dialetto, o meglio, la lingua cairanese si discosta in modo netto da tutti gli altri idiomi dei paesi limitrofi, anche se la radice della maggior parte dei termini è la stessa. A una lettura sommaria, il mio parere, del tutto soggettivo, potrebbe apparire come il tentativo, un po’ snob, di darsi delle arie o di stabilire una supremazia ante litteram. Beh, niente di tutto questo, la mia affermazione si basa su caratteristiche della nostra lingua che, a una attenta analisi, vengono fuori in maniera oggettiva e difficilmente confutabili.
Una prima considerazione riguarda le vocali in finale di parola: a parte le forme verbali all’infinito che terminano rispettivamente in à (are), é (ere), ì (ire), non esistono, salvo poche eccezioni, termini che abbiano la vocale finale pronunciata.
Una successiva analisi ci rivela che la vocale e, anche se non in fine di parola, se non è accentata non va mai pronunciata. Possiamo notare, quindi, che ci troviamo di fronte a vocaboli tronchi, aspri, urticanti, vere e proprie rasoiate di consonanti che nulla concedono alla musicalità, alla gentilezza, alla soavità.
Del resto, l’asprezza della nostra lingua riflette in qualche modo la ruvidità caratteriale dei cairanesi, una comunità isolata, soprattutto per collocazione geografica, dal resto del mondo. Cairano, infatti, sorge su uno sperone di roccia calcarea, stagliandosi, quasi come un bastione, sulla valle sottostante delimitata da una parte dal fiume Ofanto e dall’altra dal torrente Orato. In questo paese non ci si arriva per caso. Non ci sono strade di passaggio, quindi chi vuole raggiungere l’abitato deve inerpicarsi lungo una via talmente ripida che sembra possa terminare su tra le nuvole. Ma, se oggi è abbastanza agevole affrontare l’erta salita a bordo di bolidi rombanti, lo stesso non doveva essere per i contadini che, fino a pochi decenni or sono, si recavano al lavoro nei campi rigorosamente a piedi, e dopo una dura giornata scandita da sforzo intriso di imprecazioni, mestamente riprendeva il percorso inverso, il corpo sempre più pesante a ogni passo. Fiaccati nel fisico e nello spirito, a sera, verosimilmente non avevano molta voglia di conversare e il dialogo con moglie e figli non poteva che essere di poche parole. Magari risposte monosillabiche, grugniti di approvazione, borbottii impercettibili. Si evince, quindi, che anche una vita a stretto contatto con una natura ostile, pur nella sua selvaggia bellezza, può contribuire a un isolamento culturale e, di conseguenza, sociale. Di certo questa emarginazione non si può e non si deve ascrivere esclusivamente alla comunità cairanese, dal momento che essa ha origini lontane e colpe che si perdono nella notte dei tempi. Colpe indubbiamente ereditate, ma va detto che i politici più vicini a noi nel tempo nulla hanno fatto per cancellarle, anzi, hanno negligentemente perseguito politiche di industrializzazione nel nord dell’Italia favorendo una lunga diaspora dai piccoli paesi meridionali. Se si pensa che il termine “Questione Meridionale” fu usato per la prima volta nel 1873, possiamo affermare che a tutt’oggi, dopo quasi centoquarant’anni, la “Questione” è ancora più drammatica e di difficile soluzione. In questa situazione, quindi, non ci resta che tenere viva almeno la nostra lingua e far sì che non cada nell’oblio. Il compito è quanto mai arduo, ma se riusciremo ad avere la stessa tenacia dell’albero in copertina, che con le radici scoperte si aggrappa alla terra rifiutandosi di cadere, credo proprio che ce la faremo.
In giro c’è una fioritura abnorme di dizionari dei vari dialetti locali, per questo ho ritenuto giusto dare un titolo, nonché un’impronta diversa a questo volume: non un mero esercizio di traduzione dal dialetto all’italiano ma, nel rispetto del titolo, una trascrizione di voci non usuali che differiscono, per assonanza o per forma grammaticale, dall’italiano. Si è dato quindi spazio esclusivamente a termini desueti nello stesso dialetto, o dal significato dissimile dal corrispondente italiano.
Sicuramente, e chiedo scusa in anticipo, mancheranno molte parole, ma noi sappiamo bene che, se l’unità d’Italia è passata anche attraverso una lingua comune e identitaria, contestualmente si è sviluppata una altissima letteratura dialettale che ha portato linfa vitale alla lingua madre, perciò, volendo cercare, si troveranno sempre nuove parole accantonate nel cestino della memoria; quindi, se sarà il caso – con la collaborazione di tutti i nostri concittadini che vorranno suggerire nuovi vocaboli – si provvederà a una ristampa con l’aggiunta dei nuovi termini.
Essendo, questo, un libro destinato soprattutto ai cairanesi, l’autore ha evitato una lunga e noiosa esposizione di trascrizione fonetica o di pronuncia, preferendo limitarsi a poche avvertenze che si troveranno accanto a quelle parole ritenute più ostiche.
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